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Non smettete mai di protestare; non smettete mai di dissentire, di porvi domande, di mettere in discussione l’autorità, i luoghi comuni, i dogmi. Non esiste la verità assoluta. Non smettete di pensare. Siate voci fuori dal coro. Un uomo che non dissente è un seme che non crescerà mai.

(Bertrand Russell)

27/12/17

CHE C'ENTRANO I FALSI PROFUGHI?





Ma che c’entrano i falsi profughi con la Natività? E la “tenerezza rivoluzionaria” alla “Che” Guevara? Perfino nel "discorso politico", camuffato da omelia del santo Natale, il (falso) papa Bergoglio non ha saputo trattenersi di Francesco Lamendola  


Ma che c’entrano i falsi profughi con la Natività?

di

Francesco Lamendola

 

Perfino nella omelia del santo Natale, il (falso) papa Bergoglio non ha saputo trattenersi; e, invece di offrire ai fedeli uno spunto di spiritualità, di trascendenza, il senso verticale di Dio che si fa uomo e degli uomini che aspirano a Dio, ci ha restituito, per la centesima, per la millesima volta, come sempre, come ormai quasi ogni giorno, il senso della orizzontalità, della secolarizzazione, della immanenza. Non ha parlato di Gesù che nasce, ma dei falsi profughi che cercano accoglienza presso i nostri cuori, duri ed egoisti, e che bussano alle nostre porte, di noi ricchi e indifferenti cittadini del Nord del mondo, che ce ne infischiamo delle loro sofferenze e pensiamo solo al Presepio, ai regali e al pranzo natalizio. Eh, sì:; che vergogna. Come quando si è recato a Lampedusa, ha gettato una corona di fiori nel mare delle “stragi” (chi sa perché stragi, poi? il vocabolario non dà questa definizione di “strage”) e ha detto a voce alta, con tono tagliente, sdegnato, da giudice implacabile, lui così misericordioso: Vergogna!
Insomma, anche l’omelia di Natale è diventata un sermone politico e un ennesimo spot a favore della cittadinanza agli stranieri. Ancora una vola ha strumentalizzato il Vangelo, lo ha piegato nella direzione da lui voluta: da lui, o da quelli che lo hanno messo, sfortunatamente, sul seggio pontificio, a occupare la cattedra di san Pietro. Guarda caso, è la stessa direzione che sta seguendo la politica di George Soros e che rientra nei pani dell’élite finanziaria globale. E non si creda che queste sono le critiche, acide e forse ingenerose, di qualche ultratradizionalista; sono anche le critiche di un pensatore marxista come Diego Fusaro, secondo il quale il papa si sta mettendo al servizio della “mondializzazione” e dello “sradicamento capitalistico”; di più: che giudica il suo discorso di Natale più ispirato a Soros che a Cristo”. Questa, sì, che è una vergogna incancellabile, la vergogna suprema, perfino dal suo punto di vista: che il papa cattolico si faccia accusare di essere al servizio del supercapitalismo proprio da un filosofo marxista; lui che gongolava tutto quando il presidente marxista della Bolivia, Morales, gli ha regalati un Crocifisso costruito dentro una falce e martello, e lo ha preso con gioia, facendosi fotografare come se fosse perfettamente a suo agio con quel dono fra le mani.
Ed ecco la sua omelia natalizia, ad eccezione delle prime battute introduttive:
Per decreto dell’imperatore, Maria e Giuseppe si videro obbligati a partire. Dovettero lasciare la loro gente, la loro casa, la loro terra e mettersi in cammino per essere censiti. Un tragitto per niente comodo né facile per una giovane coppia che stava per avere un bambino: si trovavano costretti a lasciare la loro terra. Nel cuore erano pieni di speranza e di futuro a causa del bambino che stava per venire; i loro passi invece erano carichi delle incertezze e dei pericoli propri di chi deve lasciare la sua casa. E poi si trovarono ad affrontare la cosa forse più difficile: arrivare a Betlemme e sperimentare che era una terra che non li aspettava, una terra dove per loro non c’era posto. E proprio lì, in quella realtà che era una sfida, Maria ci ha regalato l’Emmanuele. Il Figlio di Dio dovette nascere in una stalla perché i suoi non avevano spazio per Lui. «Venne fra i suoi, e i suoi non lo hanno accolto» (Gv 1,11). E lì… in mezzo all’oscurità di una città che non ha spazio né posto per il forestiero che viene da lontano, in mezzo all’oscurità di una città in pieno movimento e che in questo caso sembrerebbe volersi costruire voltando le spalle agli altri, proprio lì si accende la scintilla rivoluzionaria della tenerezza di Dio. A Betlemme si è creata una piccola apertura per quelli che hanno perso la terra, la patria, i sogni; persino per quelli che hanno ceduto all’asfissia prodotta da una vita rinchiusa. Nei passi di Giuseppe e Maria si nascondono tanti passi. Vediamo le orme di intere famiglie che oggi si vedono obbligate a partire. Vediamo le orme di milioni di persone che non scelgono di andarsene ma che sono obbligate a separarsi dai loro cari, sono espulsi dalla loro terra. In molti casi questa partenza è carica di speranza, carica di futuro; in molti altri, questa partenza ha un nome solo: sopravvivenza. Sopravvivere agli Erode di turno che per imporre il loro potere e accrescere le loro ricchezze non hanno alcun problema a versare sangue innocente. Maria e Giuseppe, per i quali non c’era posto, sono i primi ad abbracciare Colui che viene a dare a tutti noi il documento di cittadinanza. Colui che nella sua povertà e piccolezza denuncia e manifesta che il vero potere e l’autentica libertà sono quelli che onorano e soccorrono la fragilità del più debole. In quella notte, Colui che non aveva un posto per nascere viene annunciato a quelli che non avevano posto alle tavole e nelle vie della città. I pastori sono i primi destinatari di questa Buona Notizia. Per il loro lavoro, erano uomini e donne che dovevano vivere ai margini della società. Le loro condizioni di vita, i luoghi in cui erano obbligati a stare, impedivano loro di osservare tutte le prescrizioni rituali di purificazione religiosa e, perciò, erano considerati impuri. La loro pelle, i loro vestiti, l’odore, il modo di parlare, l’origine li tradiva. Tutto in loro generava diffidenza. Uomini e donne da cui bisognava stare lontani, avere timore; li si considerava pagani tra i credenti, peccatori tra i giusti, stranieri tra i cittadini. A loro – pagani, peccatori e stranieri – l’angelo dice: «Non temete: ecco, vi annuncio una grande gioia, che sarà di tutto il popolo: oggi, nella città di Davide, è nato per voi un Salvatore, che è Cristo Signore» (Lc 2,10-11). Ecco la gioia che in questa notte siamo invitati a condividere, a celebrare e ad annunciare. La gioia con cui Dio, nella sua infinita misericordia, ha abbracciato noi pagani, peccatori e stranieri, e ci spinge a fare lo stesso. La fede di questa notte ci porta a riconoscere Dio presente in tutte le situazioni in cui lo crediamo assente. Egli sta nel visitatore indiscreto, tante volte irriconoscibile, che cammina per le nostre città, nei nostri quartieri, viaggiando sui nostri autobus, bussando alle nostre porte. E questa stessa fede ci spinge a dare spazio a una nuova immaginazione sociale, a non avere paura di sperimentare nuove forme di relazione in cui nessuno debba sentire che in questa terra non ha un posto. Natale è tempo per trasformare la forza della paura in forza della carità, in forza per una nuova immaginazione della carità. La carità che non si abitua all’ingiustizia come fosse naturale, ma ha il coraggio, in mezzo a tensioni e conflitti, di farsi “casa del pane”, terra di ospitalità. Ce lo ricordava San Giovanni Paolo II: «Non abbiate paura! Aprite, anzi, spalancate le porte a Cristo» Nel Bambino di Betlemme, Dio ci viene incontro per renderci protagonisti della vita che ci circonda. Si offre perché lo prendiamo tra le braccia, perché lo solleviamo e lo abbracciamo. Perché in Lui non abbiamo paura di prendere tra le braccia, sollevare e abbracciare l’assetato, il forestiero, l’ignudo, il malato, il carcerato (cfr Mt 25,35-36). «Non abbiate paura! Aprite, anzi, spalancate le porte a Cristo». In questo Bambino, Dio ci invita a farci carico della speranza. Ci invita a farci sentinelle per molti che hanno ceduto sotto il peso della desolazione che nasce dal trovare tante porte chiuse. In questo Bambino, Dio ci rende protagonisti della sua ospitalità. Commossi dalla gioia del dono, piccolo Bambino di Betlemme, ti chiediamo che il tuo pianto ci svegli dalla nostra indifferenza, apra i nostri occhi davanti a chi soffre. La tua tenerezza risvegli la nostra sensibilità e ci faccia sentire invitati a riconoscerti in tutti coloro che arrivano nelle nostre città, nelle nostre storie, nelle nostre vite. La tua tenerezza rivoluzionaria ci persuada a sentirci invitati a farci carico della speranza e della tenerezza della nostra gente.

In questo discorso, nel quale invano si cercherebbe un sia pur minimo afflato spirituale, un sia pur minimo senso della trascendenza, ma dove si trova sempre e soltanto quella che Antonio Socci ha chiamato “l’ossessione” di Bergoglio per il tema dei migranti, al novanta per cento falsi profughi i quali non sono affatto “costretti”, come dice il (falso) papa, a scappare dai loro Paesi, perché niente e nessuno li insegue e li forza, ma che sono guidati unicamente da ragioni di carattere economico, e in non pochi casi, da ragioni di delinquenza e di terrorismo, in questo discorso, dunque, Bergoglio paragona Gesù Bambino, con sua Madre e il suo padre adottivo, a una famiglia di profughi che vengono da molto lontano e che affrontano in terra straniera, fra mille difficoltà e incomprensioni, vittime di infiniti pregiudizi e di forme si sfruttamento, un destino ignoto, in cerca di una vita migliore. Niente di più falso; niente di più menzognero. Lo stesso Bergoglio ha ricordato, sulla base del racconto evangelico, che Maria e Giuseppe si misero in cammino verso Gerusalemme e Betlemme perché l’imperatore romano aveva indetto un censimento di tutta la popolazione. La coppia dei giovani sposi doveva uscire dalla Galilea, aggirare il territorio dei Samaritani (coi quali gli Ebrei non se la intendevano per niente) e poi salire a Gerusalemme, da cui Betlemme dista pochi chilometri, dopo aver costeggiato la sponda del fiume Giordano. Niente profughi, niente fuga, niente speranza di una vita migliore in un mondo diverso: ma tutto all’interno della Palestina, un Paese molto piccolo (l’odierno Stato d’Israele ha una superficie di 20.000 kmq: poco più del Veneto) e costantemente a contatto con gente della stessa razza, della stessa lingua, della stessa fede religiosa. Altro che migranti, traversate del deserto e del Mar Mediterraneo, barconi, viaggi clandestini a bordo dei Tir, magari nascosti sotto i veicoli, semi-assiderati dal freddo e semi-soffocati dai vapori di scarico. Non si vuol dire, con questo, che quello di Maria e Giuseppe sia stato un viaggio comodissimo; si vuol dire che è stato un viaggio assolutamente non paragonabile, neppure in senso simbolico e figurato, a quelli dei cosiddetti migranti dei nostri giorni. Sapete qual è la distanza fra Nazareth e Gerusalemme, in linea d’aria? Cento chilometri. E, a proposito, Gesù non è nato in una stalla perché i suoi genitori erano poveri, ma perché la città di Gerusalemme era sovraffollata di viandanti a causa del censimento, e tutti gli alberghi erano pieni. Certo, se Giuseppe fosse stato ricco, un letto glielo avrebbero pur trovato; ma non era affatto così povero da dover puntare senz’altro su una capanna di pastori. Quello fu un incidente di percorso: mentre cercava ospitalità presso qualche parente di Betlemme, probabilmente; certo che non credevano, né lui, né Maria, che la nascita del Piccolo fosse così imminente, altrimenti non avrebbero vagato per la campagna, a notte inoltrata. Perché un bambino possa venire al mondo con un minimo di sicurezza, non basta un tetto qualsiasi sopra la testa; ci vuole la presenza di qualcun altro, per ogni eventualità: di donne un po’ esperte, di una levatrice. Giuseppe non era un incosciente, e Maria nemmeno.
Il ricatto morale finale del discorso di Bergoglio, con quella pretesa di far credere ai cattolici che solo aprendo le frontiere dell’Italia a qualsiasi quantità di migranti/invasori islamici, si accoglie degnamente la nascita di Gesù Cristo, si fonda, in gran parte, su questo voluto equivoco. Gesù non era ricco, la sua famiglia non era ricca; ma non erano nemmeno poveri. Suo padre Giuseppe aveva un lavoro regolare e stimato dai paesani: era falegname, o forse carpentiere; il tenore di vita della sua famiglia era del tutto simile a quello medio dell’epoca, in Palestina. Gesù non è cresciuto fra gli stenti, così come non è nato in una mangiatoia per l’estrema miseria dei suoi genitori: questa è una favola, raccontata oltretutto in malafede, a cui non credono neppure i bambini. Ma Bergoglio era troppo ansioso di arruolare Gesù nell’esercito dei rivoluzionari, dei poveri che lottano per la giustizia sociale. Infatti, alla fine del suo comizio, pardon, della sua omelia natalizia, non esita ad adoperare espressioni come “tenerezza rivoluzionaria” per definire i sentimenti che Gesù ci ispira, volendo che noi apriamo le porte ai migranti: un concetto che non ha nulla di cattolico, nulla di religioso, e che piega il Vangelo alle logiche politiche di un pontificato interamente politico. Ma la “tenerezza rivoluzionaria”, non era quella di un certo Ernesto “Che” Guevara? Cosa c’entra una simile espressione per definire i sentimenti che Dio ispira agli uomini? Sembrano presi dal vecchio magazzino dell’ideologia marxista in disarmo: è un linguaggio che, in qualsiasi altra sede, farebbe semplicemente ridere, come già faceva sorridere perfino ai tempi d’oro del ’68 e della Contestazione studentesca; oggi, però, il (falso) papa se lo può permettere, senza che la gente rida, nella santa Messa di Natale, rivolgendosi a un miliardo e passa di cattolici. Complimenti: una mistificazione quasi perfetta, visto che hanno abboccato quasi tutti.
Quasi, però. A un certo numero di persone, il suo discorso non è piaciuto per niente. Non c’era in esso il senso del soprannaturale: si è dimenticato di ricordare che quel bambino era il Bambino; che non era solo un piccolo d’uomo, ma era Dio Incarnato per amore dell’umanità; oh, un’inezia, che volete che sia; un dettaglio da nulla. E i critici, ormai lo si sa, sono i soliti incontentabili, i soliti ultratradizionalisti, sordi e chiusi nel loro sfrenato e xenofobo nazionalismo italiano e nel loro viscerale e scriteriato integralismo cattolico, tipicamente e incorreggibilmente fondamentalista. Perché lo ha detto, il (falso) papa Beroglio, durante il viaggio “apostolico” in Myanmar, che anche noi cattolici abbiamo i nostri integralisti, come gli islamici hanno i loro. Certo, i loro ammazzano e sgozzano un po’ di gente, specialmente preti e cattolici inermi; i nostri, no. Ma che volete? Nessuno è perfetto, e anche questi son dettagli da nulla. Se non altro, ora sappiamo come la pensa su di noi…

Del 27 Dicembre 2017

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