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Non smettete mai di protestare; non smettete mai di dissentire, di porvi domande, di mettere in discussione l’autorità, i luoghi comuni, i dogmi. Non esiste la verità assoluta. Non smettete di pensare. Siate voci fuori dal coro. Un uomo che non dissente è un seme che non crescerà mai.

(Bertrand Russell)

14/03/16

Germania: Perché Merkel non poteva che perdere




Tre Länder e 12 milioni di aventi diritto su 62, sono pochi per scrivere sentenze politiche. Poi c’è l’eccezionalità dell’emergenza immigrazione che non potrà ripetersi ad ogni elezione. Ma, pur con ogni precauzione, il voto di ieri in Germania offre almeno tre istantanee di un panorama politico in trasformazione. La prima istantanea mostra la cancelliera Angela Merkel nell’inedito ruolo di perdente e con lei si appanna anche l’idea (mai davvero compiuta) di un’Europa aperta ai flussi migratori e faro mondiale per i diritti umani. Merkel ha tempo sino alle elezioni federali del novembre 2017 per recuperare terreno. L’Unione europea, invece, deve darsi al più presto un’identità per continuare ad esistere. Che sia solo politica, solo economica o anche di civiltà è una scelta da fare in fretta per evitare che le ambiguità la smembrino.  
La seconda immagine mostra che la destra tedesca è uscita dall’ombra: il percorso di espiazione della colpa nazista è quasi completo sia per la scomparsa anagrafica dei protagonisti di quella tragedia sia per la crescita di una democrazia orgogliosa dei propri successi. La Vergangenheitsbewältigung, la lotta contro il passato attraverso l’umiltà, architrave della pratica politica del Dopo Guerra, è in archivio.
La terza fotografia inquadra la novità da un’altra prospettiva e mostra una Germania che sta diventando un Paese normale: l’anomalia di un elettorato statico, ostaggio delle proprie paure e sazio del proprio benessere, un elettorato capace di garantire lunghi periodi di governabilità, sembra al capolinea. Anche la Germania come il resto dell’Occidente post-industriale in preda all’impoverimento della classe media, può ascoltare le sirene del populismo, farsi sedurre da soluzioni semplicistiche, convincersi che cambiare cavallo politico può non essere origine di confusione, di scelte senza obbiettivi di lungo periodo, ma un’opportunità. L’epoca dei Volksparteien, i partiti di massa, è al tramonto.
Lo storico padre-padrone della Baviera, Franz-Josef Strauss, ammoniva che non avrebbe “mai dovuto esserci in Germania un partito alla destra della Cdu”. E invece eccolo: Alternative für Deutschland (AfD), Alternativa per la Germania. Nei tre stati dove si è votato ieri, ha superato ovunque il 12%. Nel ricco e popoloso Baden-Württemberg, AfD ha scavalcato l’ex grande partito socialdemocratico (Spd) convincendo il 15,1% dei votanti. Qui la Cdu di Merkel non è più il primo partito – una supremazia che durava da 70 anni – avendo subito la rimonta dei Verdi, che con il 32% delle preferenze diventa la prima forza locale.
Nel piccolo progressista, quasi radical-chic, Renania-Palatinato, la nuova destra tedesca si è fermata al 12,4%. I socialdemocratici ottengono qui il miglior risultato della consultazione (36%), la Cdu scende al 31%. In Sassonia-Anhalt, forse lo stato dell’ex Ddr, la Germania Est, di maggior successo, Alternativa per la Germania ha superato con il 24,4% i socialdemocratici, retrocessi a quota 10,5%. AfD è diventato così secondo partito dello stato ad appena 5,7 punti percentuali dalla Cdu.
Un’ascesa spettacolare in stile Podemos o 5 Stelle avvalorata da un’affluenza estremamente alta, quasi il 10% in più rispetto al 2011, indizio che parte dell’astensionismo ha trovato una rappresentanza proprio nel nuovo partito che si definisce liberal-conservatore, ma il cui Dna politico è tutto da verificare.
AfD è guidato dalla quarantenne Frauke Petry, affascinante e telegenica leader, difficile da accostare lombrosianamente ai baffetti hitleriani. Le sue parole d’ordine sono no all’euro, no al quantitative easing di Mario Draghi, no ai salvataggi degli stati indebitati, no all’apertura delle frontiere ai migranti, no alla società multietnica, no ai gay, no all’aborto, no all’emancipazione femminile a scapito della famiglia. A soli tre anni dalla sua fondazione, ad appena 8 mesi dalla sua metamorfosi con l’espulsione del fondatore Bernd Lucke, troppo moderato, AfD è diventata una forza nazionale presente nei parlamenti di 8 stati federali. Per il momento il partito della Petry resta, per usare una terminologia italiana, fuori dall’arco costituzionale. Nessuno dei partiti più vecchi dichiara di voler formare alleanze con il nuovo venuto. Esattamente come è accaduto a Podemos in Spagna o al Front National in Francia. Si profilano alleanze “semaforo” con Cdu, Spd e Verdi assieme. Ma se non è oggi, sarà domani. I tempi della politica sono spesso imprevedibili. 
Tre mesi fa il settimanale Time nominava Angela Merkel “person of the year”. La “donna più potente del mondo”, la “leader di fatto dell’Unione Europea” aveva conquistato la copertina americana per aver guidato “l’Ue attraverso due crisi potenzialmente mortali”, quella dell’Euro e quella dei migranti. Che fosse la cancelliera tedesca a tirare il gruppo era evidente. Bastava osservare come la salutava Donald Tusk, il presidente del Consiglio europeo. L’ex premier polacco le andava incontro sorridente, le stringeva la mano, si inchinava profondamente e le baciava la mano. Modi “così intimi – ha notato Der Spiegel – che persino Merkel, abituata all’ossequio, lo osservava interrogativa”.
Sono trascorsi appena tre mesi e sembra un’altra era politica. La scelta annunciata in settembre di aprire le frontiere ai profughi in modo illimitato ha richiamato una marea umana che dal Medio Oriente si è spostata verso il Nord Europa, la sua sicurezza, i suoi assegni di disoccupazione, le sue fabbriche, le sue scuole, i suoi ospedali. Uno tsunami che ha spaventato chi quel welfare lo vede sempre più esiguo, anche per sé e i per i propri figli. Oggi Merkel è sola. O meglio chi la sostiene non è politicamente rilevante. La cancelliera, accusano i giornali tedeschi, ha sperperato il capitale politico che Berlino aveva accumulato. Mercoledì scorso, l’ossequioso Tusk ha ringraziato via Twitter i Paesi balcanici per aver “chiuso i loro confini”, cioè per aver fatto esattamente il contrario di ciò che avrebbe voluto la sua grande elettrice. E’ stato come se il commodoro avesse benedetto l’ammutinamento della ciurma alle spalle dell’ammiraglio. Sabato, poi, al vertice delle sinistre europee convocato da Hollande, cos’era se non un attacco al rigore finanziario del super ministro Wolfgang Schäuble quel “nuovo mantra” dell’Eliseo: “crescita, crescita, crescita”? Tacciono gli industriali tedeschi, favorevoli all’arrivo di nuova manodopera, in compenso ieri, nella spaventosa tendopoli di Idomeni al confine tra Grecia e Macedonia, i migranti intrappolati dai muri europei hanno marciato sotto la pioggia scandendo “Merkel, Merkel”. Mai corteo di sostegno fu meno efficace. 
Ieri in Germania non hanno votato né il presidente francese François Hollande, né il presidente del Consiglio Europeo Donald Tusk, né il milione e 200.000 rifugiati già presenti in Germania e neppure tutti gli altri desiderosi di arrivarci. Hanno votato invece tanti tedeschi spaventati dalla generosità della loro leader. In tre mesi, Frau Merkel è passata dalle voci di premio Nobel, alle lotte di partito per la sopravvivenza.  Ferocemente criticata sulla politica migratoria dal Csu, il partito gemello della Baviera, abbandonata da quasi un terzo dei suoi stessi deputati e da tanti elettori, Merkel ha i prossimi 20 mesi per conquistarsi non tanto una rielezione che forse non cerca, quanto un posto degno nei libri di storia. Pragmatica e inflessibile, la cancelliera punta ancora a convincere europei e tedeschi che l’accoglienza dei profughi, la difesa dell’euro e l’equilibrio finanziario sono basi indispensabili per una politica vincente e una Ue solida. Nel comizio di chiusura di campagna elettorale Merkel ha chiesto alla platea se solo per il fatto di aver incontrato degli ostacoli avrebbe dovuto rinunciare alla sua politica delle porte aperte. “No – si è risposta da sola –, dovremo insistere e insistere e insistere”.
La strada però è da ieri ancora più in salita.


Andrea Nicastro, inviato del Corriere della Sera - 14 marzo 2016

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