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Non smettete mai di protestare; non smettete mai di dissentire, di porvi domande, di mettere in discussione l’autorità, i luoghi comuni, i dogmi. Non esiste la verità assoluta. Non smettete di pensare. Siate voci fuori dal coro. Un uomo che non dissente è un seme che non crescerà mai.

(Bertrand Russell)

13/11/15

#VoxPopuli – Nassiriya, i Marò e i manifesti all’americana





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ROMA – Amo la Marina militare. Da ragazzotto – tra le tante altre fantasie che mi animavano – c’era quella di fare l’accademia per diventare ufficiale di Marina, confesso attratto anche dalla favolosa uniforme.
Oggi, portando i bambini dal medico, mi sono imbattuto in cartelli che invitano ad arruolarsi in Marina. All’inizio il messaggio non mi era chiaro, perché sui cartelloni sono ritratti dei Rambo dalle fattezze  occultate  dal  nerofumo  o  camuffate  in  varia  maniera.  Sembrava  il  cartellone  di  un 

ennesimo film americano di azione nella giungla. Un Rambo 33. Ma ho notato che c’era anche una confortevole bandiera con le insegne di quattro delle nostre cinque repubbliche marinare (la quinta, Ragusa la bella, oggi si chiama Dubrovnik e per non dare fastidio ai vicini croati abbiamo deciso di cancellarla addirittura dai libri di storia e dalle insegne militari), quindi mi sono detto che doveva essere roba nostra. Poi, l’ennesimo choc, quasi terminale: sotto il cartello una scritta angloamerica che strilla “Join the Navy”.
Join the navy? Ma a chi è rivolto il manifesto di reclutamento? Se fosse rivolto – che so – ai miei figli, ci sarebbe scritto un banale “arruolati in Marina”. Ma “join the navy”?
“Non è una canzone di quel gruppo gay che andava tanto negli anni Ottanta?” azzarda mia moglie che mi è seduta accanto. “I Village People?” butto lì. Effettivamente c’era una loro canzone che si intitolava “In the Navy” e nel video due dei baffuti membri del gruppo indossavano belle uniformi bianche. A risentirla bene anche quella canzone suonava come un bando di reclutamento…
Penso – e come non potrei? – alle fotografie di militari della marina alle quali ci hanno abituato ormai da più di tre anni. Quelle dei due marò che abbiamo consegnato in mani ostili e senza alcuna garanzia su richiesta delle autorità di uno Stato indiano. Sul come e perché uno Stato come il nostro, che in teoria ha un certo riconosciuto ruolo anche internazionale, abbia deciso di autoinfliggersi una tale pubblica umiliazione non è ancora chiaro. Anche sulle reali responsabilità della gestione quanto meno pecoreccia della vicenda ci sono stati in passato orrendi rimpalli e poi è caduta una cappa di omertà… il che fa pensare che le responsabilità siano diffuse e trasversali…
Non credo che il manifesto “Join the navy” potrà mai cancellare dagli occhi di un ragazzo italiano l’immagine fiera dei due sottufficiali sacrificati a non si sa quale Ragion di AntiStato. E temo che un ragazzo (o una ragazza) di buon senso possa cancellare il sospetto che non sarebbe così tanto tutelato se si imbarcasse in divisa su una nave italiana, visto il precedente.
Certo non con la facilità con cui in Italia si cancella il ricordo dei propri caduti o prigionieri, quando le cose non vanno per il meglio. Per 60 anni abbia cancellato dai nostri libri di scuola persino l’esistenza della pulizia etnica sofferta dopo la guerra dai nostri concittadini giuliano dalmati, migliaia dei quali sono stati infoibati.
Mentre scrivo leggo pochi e brevi annunci di celebrazioni locali dell’anniversario della strage di Nassiriya, accaduta 12 anni fa. Ricordo inevitabilmente un pessimo servizio di un Tg Rai alla camera ardente allestita per le vittime all’altare della Patria a Roma. Fuori del monumento c’era una fila interminabile di persone che aspettavano il loro turno solo per entrare e mettere un fiore, compostamente e in silenzio. Una giornalista andava da uno all’altro sbattendogli il microfono in faccia e chiedendogli “Lei perché è qui?”, con evidente fastidio. Infine si è lanciata su una ragazza, che avrà avuto forse 20 anni, vestita di scuro, che aveva poggiato sula spalla un piccolo tricolore. Alla domanda di rito la giornalista pensò bene di anticipare la risposta che aveva in mente e cioè “sei di destra?”, reputando evidentemente che chi stava lì doveva farlo per una motivazione in qualche modo “viziata” almeno dall’ideologia. La ragazza la guardò, giustamente, come si guarda una povera pazza che ti apostrofa per strada; e le rispose: “non lo so se sono di destra, ma sono italiana e chiunque muore sotto un tricolore è un morto che mi appartiene. E quindi gli rendo omaggio”. Mi fece commuovere. Invece la giornalista mi fece imbufalire, ma mi costrinse ad abbandonare il divano e il telecomando e fare quello che avrei dovuto fare sin dalla mattina: andarmi a mettere in fila anch’io. Perché la mia Italia era quella della ragazza con il vestito nero, non quella della giornalista pagata con i soldi pubblici per disprezzare chi dava ancora un minimo di valore a una bandiera che non fosse una bandiera di partito.

di Marcello De Angelis - 12 novembre 2013
fonte: http://www.lavocedelpopolo.net - redazione

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